regia: Mario Martone
soggetto e sceneggiatura: Mario Martone
fotografia: Pasquale Mari
montaggio: Jacopo Quadri
scenografia: Giancarlo Muselli
costumi: Ortensia De Francesco
suono: Mario Iaquone, Daghi Rondanini
musiche: “Canzone di guerra” di B.K. Bostik, “Oh Ljubav, Ljubav” di B. Estacada, “Sarajevo Supermarket” di C/P 01 Contropotere, “A todos mis amigos” di Celia Cruz
con: Andrea Renzi (Leo), Anna Bonaiuto (Sara Cataldi), Iaia Forte (Luisella Cielo), Roberto De Francesco (Diego), Marco Baliani (Vittorio), Toni Servillo (Franco Turco)
e con Maurizio Bizzi, Salvatore Cantalupo, Antonello Cossia, Francesca Cutolo, Giovanna Giuliani, Vincenzo Saggese, Lucia Vitrone, Sergio Tramonti, Adriano Casale, Lidia Koslovich, Lello Serao
con la partecipazione di: Peppe Lanzetta e l’amichevole partecipazione di: Renato Carpentieri, Lucio Allocca, Alba Clemente, Gino Curcione, Lucia Ragni
produzione: Angelo Curti, Andrea Occhipinti, Kermit Smith per Teatri Uniti e Lucky Red
in collaborazione con RAI Cinemafiction
distribuzione: Lucky Red
durata: 104 min
formato: 35 mm
anno di produzione: 1998
Agli inizi degli anni ’90 lo scoppio della guerra nella ex-Jugoslavia, spinge Martone ad intraprendere una riflessione sul rapporto dell’individuo della società attuale con la guerra e sul ruolo del teatro. Sviluppa quindi un progetto attorno alla messa in scena di I sette contro Tebe di Eschilo, nella traduzione di Edoardo Sanguineti e adattamento di Martone stesso. Le prove, riprese in 16 mm, e lo spettacolo (alla regia lo affianca Andrea Renzi) attualizzato nell’ambientazione per cui lo scontro fratricida tra Eteocle e Polinice avviene non con le spade ma con i mitra, convogliano nel film Teatro di guerra. La vicenda ruota attorno ad un gruppo di attori, guidati dal regista Leo (Andrea Renzi) che decide di provare I sette contro Tebe in una sala dei quartieri spagnoli a Napoli per portarlo in segno di solidarietà a Sarajevo, arrivando a scontrarsi con i giochi di potere del teatro ufficiale. Il gruppo non riuscirà mai a partire per l’ex-Jugoslavia, scossa ancora dalla guerra. Nel film si scontrano due diversi modi di vivere il teatro e in generale la creazione artistica in rapporto con il mercato. Da un lato la compagnia eterogenea messa insieme da Leo, si muove ai margini dell’ufficialità in una situazione di sperimentazione. All’opposto il teatro stabile guidato dal regista Franco Turco (Toni Servillo) continua vittoriosamente a sfornare spettacoli senza le spinte utopiche del giovane gruppo.
Nel luglio del ’95 mi trovavo ad Avignone, dove preparavo uno spettacolo per il festival. In quel periodo la guerra nei Balcani attraversava uno dei suoi momenti più terribili, e i teatranti francesi presenti al festival organizzarono molte manifestazioni in favore della Bosnia. Improvvisamente mi resi conto di aver assistito per anni da spettatore ad una guerra che invece mi riguardava moltissimo, non foss’altro per la vicinanza geografica e culturale dell’Italia con la ex Jugoslavia. Ero stato pochi mesi prima a Belgrado, e lì avevo provato una grande sensazione di vuoto. I miei stessi amici serbi, tutti contrari alla guerra e alla politica di Milosević, non mi avevano trasmesso quel senso di indignazione e di ribellione che avrebbe dovuto comunque accomunarci contro un orrore come l’assedio di Sarajevo, al di là di ideologie e appartenenze etniche. Mi riproposi, tornando in Italia, di lavorare a uno spettacolo teatrale che riguardasse la guerra.
Speravo che il teatro, nel quale lavoro da quando ero ragazzo, fosse un possibile strumento, se non altro, di avvicinamento: il teatro è da sempre lo scandaglio che la cultura occidentale adopera per penetrare le tragedie in profondità. Ma nel mettermi al lavoro provavo anche in questo caso un senso di vuoto. Esistevano parole spendibili su ciò che succedeva? Ogni tentativo sembrava cadere nel nulla, schiacciato com’era dalle immagini di orrore che si rovesciavano nelle nostre case, dalla guerra in diretta televisiva, dalla confusione ideologica che annebbiava le idee e rendeva difficile distinguere i torti dalle ragioni e le vittime dagli aggressori. Una generazione ormai lontana si era misurata con la guerra di Spagna, e su quelle scelte crebbe ed agì; più tardi, era stato il Vietnam a orientare le coscienze di una generazione successiva. E la mia generazione, che rapporto aveva avuto con la guerra nella ex Jugoslavia? Mentre mi dibattevo tra questi pensieri, arrivava l’inverno, e la guerra finiva.
Decisi di fare un film per cercare di penetrare il vuoto che avevo provato. Facendo un passo indietro, il film avrebbe raccontato di una compagnia teatrale che prepara uno spettacolo da portare a Sarajevo, senza riuscire a partire. Immaginavo due amici, uno italiano (il regista dello spettacolo), uno bosniaco (il direttore del teatro di Sarajevo). Immaginavo che l’amico di Sarajevo dovesse a un certo punto venire a Napoli per assistere alle prove, e diventare quindi uno dei personaggi principali del film. Alla fine non è stato così, ma il processo che ha portato a questa decisione è stato lungo.
Avevo letto un libro di racconti che si chiama Le Marlboro di Sarajevo. L’autore, Miljenko Jergović, trent’anni, li aveva scritti durante la prima fase dell’assedio. Avevo molto amato il taglio quotidiano e antiretorico del libro e, avendo saputo che a fine novembre ’95 Jergović veniva in Italia per una serie di conferenze, andai a trovarlo. Gli proposi di lavorare alla sceneggiatura. Io potevo tentare di raccontare ciò che era successo a noi, ma non era certo possibile per me scrivere in modo credibile un personaggio di Sarajevo: solo uno scrittore bosniaco poteva farlo. A Jergović l’idea non dispiacque. Lo convinceva soprattutto la mia determinazione a non mostrare nel film nessuna immagine di Sarajevo. «Sarajevo ormai è una cartolina», mi disse. Gli mandai le cassette dei miei film, gli piacquero, accettò. Coinvolsi anche Fabrizia Ramondino, con la quale avevamo scritto Morte di un matematico napoletano. Anche lei si era occupata del conflitto nella ex Jugoslavia, scrivendo una lunga introduzione al libro Sarajevo oltre lo specchio di Merima Hamulić Trbojević, e mi piaceva l’idea che la sceneggiatura fosse un luogo di incontri e di scambi.
Ci fu una pausa. Nella prima metà del ’96 lavorai infatti a una manifestazione in ricordo di Antonio Neiwiller, grande e misconosciuto artista di teatro, morto giovane, amatissimo amico mio. Al centro della sua idea di teatro c’era il laboratorio, inteso come luogo permanente di ricerca, in conflitto con la mercificazione ansiosa del teatro come prodotto. La frequentazione delle idee di Antonio mi spinse a dilatare i tempi della lavorazione del film. Capii che non era possibile scrivere una sceneggiatura in cui si immaginassero delle prove di teatro: le prove andavano fatte per davvero. Il teatro esiste solo nel suo farsi, e limitarsi ad immaginarlo sarebbe stata una menzogna.
Scelsi di mettere in scena I sette contro Tebe di Eschilo, che tratta di un assedio e di una guerra fratricida. Le prove sarebbero durate da ottobre a dicembre ’96. Una macchina da presa in 16 mm sarebbe stata presente sin dal primo giorno in teatro. Andrea Renzi, l’attore che da sempre lavora con me e che nel film avrebbe interpretato il ruolo del regista, mi avrebbe realmente affiancato nella regia dello spettacolo. Miljenko Jergović e Fabrizia Ramondino avrebbero seguito il lavoro prima di cominciare a scrivere. Per Miljenko sarebbe stata anche l’occasione di conoscere e vivere Napoli: si sarebbe trovato in una situazione speculare a quella del personaggio a cui avrebbe dovuto dare vita. A maggio consegnai a Miljenko e Fabrizia un primo soggetto. Si trattava volutamente di un canovaccio apertissimo, a tratti vago: l’invito agli scrittori era innanzitutto quello di partecipare a un processo di lavoro dal quale scaturisse la sceneggiatura. Su un tema come quello che stavamo per affrontare, mi sembrava decisivo non avere troppe idee preconcette. Fabrizia elaborò alcuni spunti del soggetto, e a lei si devono alcune cose che sono rimaste nel film, come la scena della Bisbetica domata messa in scena da Franco Turco, e l’intuizione di una donna proveniente dalla ex Jugoslavia, la signora Hamulic, che nel film ha poi preso l’aspetto di una bibliotecaria.
A luglio Andrea ed io partimmo per la Bosnia. Da Trieste andammo prima a Zagabria insieme a Ljiljana Avirović, la traduttrice di Jergović che in tutti questi mesi mi aveva aiutato con passione a tenere i contatti con lo scrittore che adesso viveva nella capitale croata. Poi proseguimmo da soli. Il resto del viaggio è raccontato nel breve diario che ho tenuto in quei giorni. Cercavamo l’attore che avrebbe dovuto interpretare l’amico bosniaco, ma forse ciò che ha cominciato a prendere forma in quel viaggio è stato un ulteriore processo di radicalizzazione del progetto. Davvero grande era la distanza che col passare degli anni ci aveva separato dalla gente di Sarajevo. Prima o poi sarebbe stato necessario fare i conti con questa realtà, e meditare sulle dure parole di Havris Pasović che ho riportato nel diario. In ottobre cominciarono le prove, e di conseguenza le riprese del film. Ogni giorno riprendevo infatti delle parti del lavoro. Avevamo messo a punto con l’operatore e gli altri collaboratori un codice di gesti che mi consentiva di indicare quando e cosa riprendere nonostante fossi contemporaneamente impegnato nella regia teatrale. La macchina da presa non è mai stata avvertita come una presenza ingombrante dagli attori, fin dal primo giorno di prove. Non veniva spostata mai più di una volta al giorno (durante la pausa), e gli attori erano assolutamente consapevoli della sua presenza. Molto di ciò che è accaduto durante il periodo delle prove ha condizionato quello che poi sarebbe stato il film. Le vicende personali degli attori sono spesso confluite nelle vite dei personaggi che loro stessi avrebbero successivamente interpretato. Eppure, sia chiaro, non c’è nessun autobiografismo, tutto ciò che si racconta nel film è una costruzione narrativa. Sono i mattoni con cui questa narrazione è costruita ad essere talvolta veri. È successo anche che Miljenko Jergović non sia potuto venire. Forse non ha voluto più, non lo so, e non ha importanza. La sua mancata venuta è stato un contributo importante, forse quello più giusto, quello necessario. Noi lo abbiamo aspettato come i teatranti del film aspettano il regista di Sarajevo, e la sua assenza ha detto molte cose. Anche con Fabrizia Ramondino non siamo più andati avanti nel lavoro. C’è stato un momento in cui ho capito che dovevo assumermi la responsabilità della sceneggiatura in prima persona. I sette contro Tebe è andato in scena nella sala inferiore del Teatro Nuovo di Napoli il 19 dicembre ’96, e non è stato mai più ripreso se non a giugno ’97 nello stesso luogo, in concomitanza con l’inizio delle riprese. Ho cominciato a lavorare alla sceneggiatura a gennaio, partendo dalla selezione del materiale filmato durante le prove, e ho alternato le scene di prova con le scene di vita degli attori. Volevo rendere stilisticamente dolce il passaggio tra la parte “documentaria” e quella di finzione: anche la parte per così dire narrativa del film è stata così girata in super 16 mm. Desidero, a questo punto, ringraziare gli attori, che hanno accettato con consapevolezza e profondità di farsi riprendere in un momento delicato come quello delle prove, e che hanno dato un grande contributo alle situazioni e ai dialoghi. E desidero ringraziare i produttori (Angelo Curti in particolare), che hanno creduto in un progetto così lungo e azzardato.
Mario Martone Introduzione a Teatro di guerra. Un diario, Bompiani, Milano 1998